Viaggi di Casanova - tradizioneattacchi.eu

24/04/2024
Vai ai contenuti

Menu principale:

Viaggi di Casanova

Viaggiare

Dalla rivista "TOURING N°1-1911
"In viaggio con Giacomo Casanova"
Il turismo nel secolo XVIII

Ai pigri viaggiatori spirituali, ai turisti dell'immaginazione, che amano il moto con la eccitabile fantasia, ma col corpo indolente preferiscono la quiete, io propongo un dilettoso viaggio - in ispirito, si capisce a traverso l'Europa.
E' troppo poco diranno i turisti dell'immaginazione, con la fantasia si può fare ben altro; e noi si vorrebbe qualche cosa che uscisse dall'ordinario. Benissimo. Aprano le Memorie di quell'instancabile vagabondo del settecento, di quel celeberrimo avventuriero italiano che fu Giacomo Casanova, si lascino condurre da lui, lo seguano un po' dappertutto e vedranno che non si tratta di un viaggio comune.

La vita del Casanova fu vita di movimento continuo. Talvolta obbedendo alla necessità, tal altra al suo spirito avventuroso o all'invincibile suo bisogno di cambiar sede e, diremo con una frase viva in quel secolo, di correr le poste, l'irrequieto veneziano non fece che viaggiare. Visitò e conobbe tutta l'Europa, e la percorse “en touriste”, col desiderio di veder cose nuove. Le particolarità dei paesi attraversati, la loro diversa bellezza, i costumi degli abitanti non isfuggirono alla sua attenzione se non quando, incalzato da troppe cure, (spesso i viaggi del Casanova erano fughe) egli non ebbe nè tempo nè voglia di considerarli.

Avranno, dunque, una guida preziosa coloro che vorranno rifare con lui, nel suo secolo, il giro d'Europa, ed io li esorto a preparare subito le valigie. Nè mi limiterò soltanto ad esortarli, ma metterò a profitto la poca esperienza acquistata nel giro, che a mia volta ho già fatto, per informarli delle condizioni del turismo nel secolo decimottavo: poche notizie, desunte dalle stesse "Memorie del Casanova"; appena tanto che basti per mettersi in cammino con qualche utile conoscenza. I viaggi, si sa, erano lenti nel secolo decimottavo. Ma non s'impressionino i turisti fantastici: erano lenti per quelli che viaggiavano per davvero. Essi, quando vogliano far molta strada con un salto, non hanno che da saltar ... molte pagine.

Fra paese e paese esistevano vere e proprie linee carrozzabili, interrotte ad ogni otto miglia in circa dalle poste: catapecchie il più delle volte e semplici scuderie pei cavalli di ricambio, spesso anche alberghi pei passeggeri; e lungo queste linee, con un orario piuttosto approssimativo, (qualche cosa, chi voglia figurarselo al vivo, come quello delle nostre ferrovie) transitavano le pubbliche diligenze. Quando s'aveva una borsa ben fornita si poteva noleggiare una vettura per conto proprio e farvi attaccare molti cavalli; ma comunque si cercasse di correggerli, i difetti di quei mezzi di trasporto erano sempre il disagio e la lentezza.
Alla lentezza s'aggiungevano i pericoli: le vie terrestri erano infestate di malandrini, le vie marittime di corsari; e contro i loro soprusi le leggi avevano, sì, disposizioni rigorose, ma che venivano malamente eseguite. I boschi più frequenti e più folti, le contrade più spopolate, la polizia meno vigile facilitavano le imprese dei ladroni; e questi avevano buon giuoco contro i poveri viandanti, che potevano dire d'essersela cavata bene quando rimanevano, nudi e crudi, in mezzo a una strada. Ma v'erano (coraggio, turisti dell'immaginazione!) v'erano altre insidie lungo il cammino: osti ricattatori, accordati con gli sbirri, gabellieri insolenti e prepotenti, che si appigliavano ad ogni minuzia per estorcere denaro; postiglioni avidi; bari, ciarlatani, mariuoli e avventurieri: gentaglia, quest'ultima, assai numerosa nel secolo decimottavo e nomade per natura, così che il viaggiatore la incontrava sempre sui suoi passi e per poco che fosse ingenuo o inesperto s'impigliava nelle sue reti.

Tanta varietà di peripezie e di pericoli davano, a chi si metteva in un lungo viaggio, l'impressione d'ingolfarsi in un'avventura, e stabilivano fra i compagni di strada una rapida intrinsechezza, come tra gente affratellata da un comune destino. Oggi non è più così. Si viaggia con troppa frequenza, con troppa facilità e, sì, anche con una certa sicurezza; i compagni mutano ad ogni tratto, si rinnovano ad ogni stazione, e son molti, e tutti abituati ai lunghi tragitti e preoccupati, in questo secolo positivo, solamente di sè. Allora, invece, le condizioni stesse del viaggiare creavano, per necessità di cose, la socievolezza e la famigliarità.

Nelle anguste diligenze limitato era il numero dei passeggeri e quindi raccolta e quasi intima la compagnia. Nel ristretto spazio della vettura si stava pigiati, gomito a gomito, naso a naso, piedi contro piedi: impossibile non scambiarsi fin dal principio qualche parola, se non per altro per chiedersi almeno scusa d'essersi urtati l'uno con l'altro. E cosi, dai convenevoli e dalle scuse cominciava la conversazione. Inoltre, i nostri nonni del secolo decimottavo erano curiosi, pettegoli, ciarlieri: amavano i complimenti, gustavano le galanterie. Il cicisbeo cavava di tasca la tabacchiera d'oro smaltata o la confettiera guarnita di perle e, prima di servirsene, le faceva girare intorno fra i compagni. Sarebbe stato mal garbo rifiutare l'offerta; ed ecco che l'oggetto prezioso, passando da mano a mano, accompagnato da un motto cortese, presentava l'uno all'altro i viaggiatori. I quali non domandavano di meglio che di conoscersi, di associarsi, di conversare: la strada era tanta, così lungo era il tempo che dovevano stare insieme: come si sarebbe passato cotesto tempo se non ciarlando? E le fermate, poi; le lunghe fermate ad ogni posta, nell'attesa che si cambiassero i cavalli; e le soste nei piccoli alberghi, ove spesso la scarsezza delle stanze costringeva due sconosciuti a dormire assieme: tutto, infine, accomunava tra di loro i passeggeri.

La conversazione era, dunque, animata in viaggio, e per giunta, viva e colorita fra i viaggiatori italiani, a causa della lingua. Le divisioni politiche, la chiusa vita regionale sviluppavano ed afforzavano l'uso dei dialetti. Ne resultava un incrociarsi d'idiomi, tutti immediatezza, vivacità, colore. Così, in queste Memorie del Casanova, troviamo, in una diligenza, un avvocato napoletano, che pure doveva essere persona colta, e due dame romane a conversare animatamente, ciascuno nel proprio vernacolo; ed ascoltiamo un dotto pontefice, Benedetto XIV, dire al Casanova, recatosi a visitarlo a Monte Cavallo, che «senza imbarazzarsi a parlar toscano, gli parlasse pure in veneziano, come egli parlerebbe bolognese».

Il Casanova (ci convien dire qualcosa anche di lui, che abbiamo preso a prototipo dei turisti del settecento), nei molti anni trascorsi a Parigi, imparò il francese abbastanza bene; ma sulle prime s'impacciava ad ogni frase e diceva spropositi su spropositi. Un giorno una dama gli domandò se voleva trattenersi a colazione con lei: Non - rispose il veneziano - c'est fait j'ai pris un café avec deux savoyards. La dama inorridì, e solo dopo un'ampia spiegazione riuscì a persuadersi che il suo amico non era un antropofago, che non aveva inghiottito una bottega e che i due sarovards erano degl'incruenti biscotti e non degli abitanti della Savoia. Infine discorrendo di linguaggi internazionali non ne trascureremo uno che ancora è di moda ai nostri giorni, ma che allora doveva esser più facile a parlare, in quelle anguste diligenze, quando rimpetto a un giovine intraprendente sedeva una dama civettuola e vezzosa: il linguaggio... dei piedi.

Il mezzo di trasporto più economico, e perciò più in uso, era la diligenza. Generalmente, questa vettura aveva forma rettangolare; ma in Francia se ne usavano anche di ovali, come quella grossa carcassa che trasportò, una volta, l'avventuriero veneziano da Lione a Parigi, e che era scomoda appunto per la sua foggia, poichè nessuno poteva giovarsi degli angoli. L'eguaglianza, nel paese che più tardi l'avrebbe imposta alle genti, è incominciata dalle vetture.
La diligenza: quante buone cose antiche si rievocano a questo nome, e che nostalgia nel rievocarle! Al mattino, di buon'ora, si udiva nella via un suono di corno: il postiglione annunziava la partenza, Nelle case, i partenti affrettavano gli ultimi preparativi, ma senza troppo affannarsi. Quella grossa carrozza, laggiù nella via, aveva un'aria così tranquilla, così bonacciona, che pareva proprio dire ai viaggiatori: Fate pure il vostro comodo. Si arriverà lo stesso». E poi, i viaggiatori avevano, accaparrato il posto un pezzo prima della partenza, e la carrozza non avrebbe mai commesso la sgarberia di lasciarli a terra.

Giungevano alla spicciolata, si scambiavano un sorriso, un saluto, una presa di tabacco, stavano un poco a questionare cerimoniosamente per decidere chi dovesse salir prima, e finalmente eccoli seduti. Ci son tutti? No, manca qualcuno ancora. Ed ecco sbucare da una via il ritardatario, col tricorno di traverso, le falde della zimarra al vento, il bastone sotto l'ascella: ha corso un poco; ma diamine! gli orari c'erano anche allora e la tolleranza aveva pure un limite nel secolo decimottavo... Si partiva. L'enorme vettura, con i suoi cinque cavalli quali al trotto quali al galoppo, col suo grosso ventre giallo, con la cassetta pel cocchiere, con i tre posti dinanzi coperti dal mantice di cuoio, con la parte interna dove si stava in sei e l'imperiale dove si stava in quattro, col dosso tutto carico di bagagli, di animali domestici, di gabbie d'uccelli, procedeva solenne e grottesca, rumoreggiando sul lastrico, rimbalzando sui ciottoli, fra il tintinnio dei sonagli, l'abbaiare dei cani e gli schiocchi di frusta del conduttore.

Era un personaggio, il conduttore; e tutti lo conoscevano di fama e sapevano già da prima se fosse quel tale prudente abile sicuro, che conduceva i passeggeri sani e salvi alla mèta, o quel tale altro, beone dormiglione dappoco, che spesso li rovesciava giù nei fossi delle strade. E non soltanto i passeggeri avevano una gran considerazione per questo personaggio, dal quale dipendeva la salvezza delle loro costole, ma anche gli osti, che cercavano di cattivarselo in tutti i modi. Egli, infatti, esercitava sui viaggiatori una specie di tutela. Nel prezzo che questi gli sborsavano per il posto in vettura erano compresi il vitto e l'alloggio ad ogni fermata prestabilita. Ed egli sedeva a mensa con loro, quasi fosse il capo di quella famiglia randagia, ed ordinava, mercanteggiava e pagava per tutta la compagnia.

Erano pesanti quei carrettoni pubblici e poco adatti per chi avesse gran fretta. E gran fretta aveva il Casanova quando rapì alla madre la bellissima Corticelli e se la condusse, in una sedia di posta da Firenze a Bologna. La sedia di posta era molto più leggera della diligenza, ma scoperta dinanzi; ed il vento, che in quella notte d'inverno soffiava gelido dalle gole dell'Appennino, sferzava i volti ed agghiacciava i corpi dei fuggenti, cui non giovava, proteggerli, nemmeno il fuoco d'amore. I fuggenti, però, si fermarono alla prima posta e si misero subito in un buon letto caldo; e noi a questo punto li lasceremo, ché il turismo c'insegna, quando si può, a non metterci per le vie... scabrose.

Il mezzo di trasporto più spedito e più rapido era il cavallo da sella. Si viaggiava preceduti da un postiglione, anch'egli montato in sella, col compito di custodire i cavalli, di guardare che non fossero, lungo il tragitto, trafugati o strapazzati, e, giunti alla posta seguente, di ricondurli alla loro posta. Per istrada, se, a causa d'un qualche accidente, il viaggiatore non potesse più servirsi del suo ronzino, aveva diritto di montare quello del postiglione. Ma sembra che talvolta i postiglioni s'infischiassero di un tal diritto. Una notte che Casanova galoppava a spron battuto verso Padova, il suo cavallo cadde e rimase storpiato. Avendo fretta, egli montò senza altro su quello dell'accompagnatore, che però non voleva saperne di cederglielo, e, afferratolo per la briglia, lo tratteneva. Casanova, dopo aver tentato di persuadere il testardo, visto che non intendeva ragioni, estrasse la pistola e gli tirò un colpo a bruciapelo, ma senza colpirlo; poi, profittando dello sgomento di lui, puntò gli sproni nei fianchi al ronzino e s'allontanò. Il padrone della posta, quando seppe l'accaduto, non si diede punto pensiero del postiglione, del quale si poteva credere, non essendosi ancora ripresentato, che giacesse morto o ferito in qualche fosso lungo la strada; ma badò soltanto a strepitare pel suo cavallo storpiato. E lo stesso avventuriero, a questo punto, esce fuori a dire che di proposito egli aveva mancato il colpo di pistola, ma se anche il postiglione fosse rimasto ucciso, nessuno gli avrebbe chiesto conto di quel delitto.

Le vetture postali diligenze, sedie o berline - non sempre soddisfacevano il viaggiatore, che spesso, quando la borsa glielo permetteva, preferiva di acquistar la carrozza adatta al viaggio che era per fare, pur servendosi dei cavalli che si noleggiavano lungo le poste. La necessità di acquistar vetture e poi di disfarsene ad ogni tratto, per sostituirle con altre più convenienti, doveva essere un impaccio assai grave alla speditezza del viaggio ed un fastidio non lieve pel viaggiatore. Ma era una necessità. A Wesel, infatti, il nostro turista, se vuol continuare il viaggio, deve disfarsi della sua sedia di posta, perchè i cavalli del paese non sono abituati a tollerare la stanga; ed a Saint Jean-de- Luz, per potersi recare, traverso i Pirenei, a Pamplona, è costretto a vendere la carrozza con cui ha viaggiato finora, e che sostituirà con un'altra quando avrà valicato le montagne a cavallo d'un mulo. Pure con muli egli passò il San Bernardo, nel suo ritorno dalla Svizzera; ma nell'andata aveva percorso la via del Moncenisio, servendosi di un mezzo più comodo: la portantina.

Le persone di qualità si distinguevano, viaggiando, per la ricchezza dei loro equipaggi, che consisteva specialmente nella comodità delle vetture e nel gran numero di servitori e di cavalli.  Non era decente che un gentiluomo andasse pel mondo senza domestici: doveva condursene dietro almeno uno; e la gentildonna che non avesse seco un laquais a cassetta ed a fianco una dama di compagnia era tenuta in poca considerazione. Completava l'equipaggio un corriere, che aveva il compito di precedere e di apprestare nel luogo dell'arrivo l'alloggio e quant'altro occorresse agli esigenti viaggiatori. Ma non sempre l'alloggio si trovava; e poi, in certi casi di gran fretta, si viaggiava anche la notte. In questi casi, la vettura più adatta era la così detta dormeuse: ampia carrozza, provveduta di sedili a lettuccio ed imbottita di dentro; ma dispendiosa, perchè a tirarla bisognavano parecchi cavalli. Il Casanova si giovò molto della sua, quando da Riga si trasferì a Pietroburgo, con una temperatura di quindici gradi, e quando si recò a vedere una grande rivista militare, che ebbe luogo a quindici verste dalla metropoli russa, con l'intervento dell'Imperatrice e di tutta la corte. Nelle due notti che i convenuti alla festa passarono lontano dalla città, in un luogo quasi deserto, mentre tutti dovettero spendere un occhio del capo per essere malamente alloggiati nelle catapecchie dei prossimi villaggi, egli se ne stette, con una sua amante, la bella Zaira, nella soffice dormeuse, dove il giorno venivano gli amici a visitarli; e Zaira gongolava nel fare ai mal ricoverati ospiti gli onori di quella sua casa ambulante.

Anche nel secolo decimottavo si poteva viaggiare con grande comodità, e, come oggi nei nostri treni di lusso, si poteva, essendo in una vettura, aver l'illusione di trovarsi quasi in casa propria. Bastava esser ricchi. Il duca di Richelieu, per esempio, possedeva una berlina da viaggio magnifica, con letto, tavolo, specchi, lavabi, soffici sedili, tappeti; insomma, con un confortable dei più raffinati. Lasciando Choisy-le-Roi, nel 1742, il duca fece stiepidire il letto, vi si coricò solennemente, alla presenza di trenta persone, poi diede ordine al postiglione di partire e al cameriere di non risvegliarlo se non a Lione. La berlina non era un supplizio pel cardinale di Richelieu ... Un mezzo di trasporto delizioso, tale da fargli dire che sarebbe stato felice chi avesse potuto compiere con esso il giro del mondo, il Casanova lo trovò in Olanda. Era una barca posata su una slitta a vela, che per forza di vento trascorreva dolcemente sul ghiaccio, con una velocità massima di quindici miglia all'ora.
Ma siccome il timone non serviva a nulla, bisognava avere il vento sempre in poppa: non era possibile nè andare ad orza, nè col vento di lato. «Ciò che mi sorprese moltissimo scrive l'autore delle Memorie fu l'esattezza con la quale i marinai abbassarono la vela proprio al momento opportuno; chè la slitta, anche dopo questa operazione, seguita a correre un gran tratto. Il nostro naviglio si fermò precisamente alla riva: se avessero abbassata la vela un po' più tardi, sarebbe andato a infrangersi contro la sponda».

Così il Casanova potè provare, pur nel secolo decimottavo, l'ebrezza della velocità, e lanciare anche lui la sua brava iperbole, dicendo che il moto della slitta pareva rapido come quello della freccia nell'aria». E' una similitudine un po' pretenziosa per un turista del settecento, ed un po' umiliante per noi, che l'applichiamo spesso anche ai nostri veicoli. Ma le frecce iperboliche, si sa bene, hanno l'andatura del loro tempo.
Quali mezzi di trasporto, in uso nel settecento, non esperimentò il Casanova? Tutti li conobbe: e quando la necessità ve lo costrinse, si servi anche delle proprie gambe: un mezzo che, nel caso nostro, possiamo ben considerare come proprio del secolo decimottavo, poichè quelle del Casanova erano gambe... del settecento. Eppure, come dovevano essere simpatici quegli alberghi del settecento, anche coi loro disagi! Molto più ristretti dei nostri, e più alla buona, vi si stava tutti come in famiglia, vi si stringevano subite amicizie, vi si godevano facili e fuggitivi amori... Già, gli osti avevano sempre qualche graziosa figlia da mettere alle costole dell'avventore. Ella sedeva a mensa con lui, sotto pretesto d'intrattenerlo, si lasciava persuadere senza troppa resistenza ad accettare qualcosa, suggeriva il piatto prelibato e la bottiglia più fina e, terminato il pasto, si eclissava, lasciando all'industre genitore il compito di continuare il tête- à-tête con la vittima; e l'oste, un ineffabile sorriso su le labbra e il tovagliolo sotto il braccio, mescolando il miele delle sue moine col pepe delle sue cifre, veniva a fare il conto del pranzo in due. Andremmo troppo per le lunghe se volessimo seguire passo passo, nella sua vita errabonda, l'avventuriero veneziano; e noi dobbiamo esser brevi. Ma prima di «calar le vele e raccoglier le sarte», accenniamo, appunto, ai mezzi di trasporto marittimi e fluviali usati, ne' suoi viaggi, dal Casanova. Il bizzarro uomo fu anche navigatore. E chi, infatti, potrebbe più di lui vantarsi di aver navigato, e di aver saputo navigare ad ogni vento e di aver navigato in buone e in cattive acque?...


Vincenzo Bucci



Torna ai contenuti | Torna al menu